Archestrato di Gela: I Piaceri della Tavola

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Non molto sappiamo della vita di Archestrato, poeta e filosofo magno-greco, se non che il suo floruit è collocabile nella seconda metà del IV secolo a.C. Della sua opera principale ci rimangono 63 frammenti tramandatici da Ateneo nei suoi Deipnosofisti. Sempre da Ateneo possiamo trarre la più ampia notizia che l’antichità ci ha restituito di Archestrato: ‘Crisippo, a tutti gli effetti un vero filosofo, dice che Archestrato fu il precursore di Epicuro e di coloro che adottarono le sue dottrine sul piacere, causa di ogni corruzione’ (Deipn., 267).

Ora, se effettivamente la definizione ‘precursore di Epicuro’ è forse eccessiva, sicuramente Archestrato fu un gaudente, un buongustaio, un viaggiatore e fu il primo, per quanto sappiamo, che abbia scritto in poesia di gastronomia nel suo poema in esametri ‛Ηδυπάϑεια (I piaceri del Buongustaio).

Il poema, come detto, è in esametri e l’intonazione è epica: molti dei versi superstiti sono foggiati su versi omerici, e omerici ne sono, per quanto lo consente il contenuto, il linguaggio, le forme e la composizione. Il poeta dopo avere esordito dicendo che ha percorso tutta la terra e tutti i mari per conoscere quali siano i migliori bocconi e i migliori vini, tratta specificamente di numerosi ingredienti e, soprattutto sui pesci ci restituisce numerose informazioni circa le qualità migliori, i luoghi da cui provengono le specie migliori e più saporite.

La prima edizione critica di tutti i frammenti superstiti fu curata da Domenico Scinà e venne edita nel 1842, a Venezia, dallo stampatore Giuseppe Antonelli. Ebbene, avendo un esemplare dell’opera in collezione, oggi vogliamo regalarvene la trascrizione di testo e commento!

Scinà, Gastronomia di Archestrato, 1842
Scinà, Gastronomia di Archestrato, 1842

Quanto conobbi in viaggiar mostrando
A Grecia tutta, ove miglior si trova
Ogni cibo dirò ogni liquore. (1)

Di vivande squisite unica mensa
Accolga tutti, ma di tre o di quattro
O di cinque non più sia la brigata:
Perchè se fosser più cena sarebbe
Di mercenari predator soldati.

Dirotti in prima, o caro Mosco, i doni
Di Cerere, la Dea di bella chioma (2);
Tu nella mente i detti miei conserva.
Il pan, che fassi senza alcun mescuglio,
Tutto d’orzo fecondo, il più prestante
E tra gli altri il miglior prender si puote
In Lesbo là sul colle da’ marini
Flutti bagnato, ove è l’inclita Erisso,
Pane sì bianco, che l’eterea neve
Vince in candor. Che se i celesti
Numi D’orzo mangiano il pan, Mercurio al certo
In Erisso sen va loro a comprarlo.
In Tebe è ver da sette porte, e in Taso,
Ed in altre citta di ancora è buono,
Ma a quel d’Erisso in paragon pattume
Ti sembrerà. Chiaro oltre a ciò ritieni
Quel che ti aggiungo. Il collice procura
Pan di Tessaglia, che crimazia appella
Questi, e quegli altri suol chiamar condrino;
Pane che a turbo si conforma in giro,
Ed affinato è dalla man, che intride:
L’arcade encrifia ancor degno è di lode,
Nato dal fior della farina: in piazza
L’illustre Atene poi venal prepara
Pane eccellente: ma diletto a cena
Ti darà quel, che dal teglion si cava
Bianco, vistoso, di color splendente
Nell’Eritrea città ferace d’uva. (3)

Lidio o fenice poi t’abbii il fornajo
In casa, il quale il tuo piacer conosca;
E vada a tuo volere ogni maniera
Di pane in ciascun giorno lavorando. (4)

Eno di mie, che sono grosse, è ricca,
D’ostriche Abido, Pario di granchi,
Mitilene di pettini, e a più conche
Giunge Ambracia il cinghial, Messina abbonda,
Là sullo stretto angusto ove ella è posta,
Di conchiglie peloridi, daratti
Efeso came, che non son cattive,
Tetee Calcedonia; le trombe,
Tanto quelle del mar, quanto del foro,
Ed anche i trombettier stritoli Giove,
Tranne il mio amico abitator di Lesbo
Ricca di viti, che Agaton si appella.(5)

Ma lasciando le ciance, abbiti cura
L’astaco di comprar, quel che ha le mani
Lunghe, ed insiem pesanti, i piè piccini,
E sulla terra lentamente salta.
L’isole di Vulcano assai ne danno,
Che avanza tutti nel sapore, e molti
Il mare di Bisanzio anche ne aduna. (6)

In Abdera le seppie, e in Maronea.
Le lolligini in Dio di Macedonia (7),
Cui scorre a canto il fiumicel Bafira,
Moltissime in Ambracia ne vedrai (8).
Ottimi i polpi in Caria e in Taso; e molti
Ne nutre e grossi per lo più Corcira (9).

L’ippuro eccelle di Caristo, e inoltre
Ricca è Caristo di squisiti pesci (10).

Là nello stretto che riguarda Scilla
Nella piena di Selve Italia il mare
Il pesce lato, ch’è famoso alleva,
Boccone in vero da recar stupore (11).

Se unqua de’ Carii in Taso giungi, avrai
Grosse le squille, ma di rado in piazza
Si possono comprar; d’Ambracia il mare,
E quel di Macedonia assai ne appresta (12).
Il cromi in Pelle avrai ben grande (e pingue
Nella state si trova) anche in Ambracia (13).

L’asino pesce, che callaria alcuni
Chiaman, ben grosso nutrica Antidone;
Ma certa carne tien, che par spugnosa,
E, almeno al gusto mio, niente soave.
Molti lodanla assai, suole diletto
Prender costui di questo, e quegli d’altro (14).
Nel suol felice d’Ambracia giungendo
Il marino cinghial compra se il vedi,
E s’anco si vendesse a peso d’oro
Non lo lasciare, affine che vendetta
Crudele degli dei sù te non piombi:
Fior di nettare al gusto egli è quel pesce.
Ma non a tutti li mortali è dato
Di poterne mangiar, neppur cogli occhi
Di poterlo guardar; solo è concesso
A color che cestelli ben tessuti
Di giunco, che si nutre in la palude,
E ben capaci nelle man tenendo
Di presto conteggiare hanno il costume.
Di agnel le membra ancora in dono sprezza (15).

In Taso compra non maggior d’un cubito
Lo scorpion, ma s’è maggior lo lascia16.

Se nell’angusto fluttuoso stretto
Che parte Italia, presa vien la plota
Detta murena, comprala, chè questo
Ivi è boccone di stupendo gusto (17).
Lodo ogni anguilla, ma la più squisita
È quella, che si pesca dello stretto
Nel mar, che Reggio di rincontro guarda.
O di Messina abitator felice
Sopra ogni altro mortal, che questo cibo
In copia mangi! Levan pur gran fama
Le anguille di Strimona, e di Copea
Perchè son grosse e pingui a maraviglia.
Ma d’onde pur si fosse, a mio parere,
Signoreggia tra tutte le vivande,
E ogni altra avanza per la sua dolcezza
L’anguilla, il pesce sol ch’è tutto polpa (18).

Il sinodonte poi, pesce che devi
Cercar ben grosso, questo ancor t’ingegna
D’acquistar dallo stretto, o caro amico.
Tutto ciò dico a Ciro e a te, Cleano (19).
La lebia poi, ch’epato ancor si chiama,
In Delo e Teno di mar cinte, piglia (20).

Dalla cinta di flutti Egina compra
Il muggine, così tu pregio avrai
Di conversar tra le gentil persone (21).
Se non si vuole a te vendere in Rodi
Il galeo volpe, ch’è assai pingue, il quale
Suole cane chiamarsi in Siracusa,
Ben anco a rischio di morire, il ruba,
Ed alla fine quel che può t’avvenga (22).

L’elope, ma il miglior, vanne a mangiarlo
Nell’insigne città di Siracusa
Più che in ogni altro suol; perchè là nato,
È di colà che poi si porta altrove.
Che se all’isole intorno, o ad altra terra
Vien l’elope a pescarsi, o intorno a Creta,
Di là venendo giungerà magretto,
Duro, e dall’onde travagliato e stanco (23).

Compra la rana dovunque la trovi,
E cura poi di prepararne il ventre (24).
Allo spuntar di Sirio il fagro mangia
In Delo e in Eritrea, colà ne’ luoghi,
Che a’ bei porti vicin stansi sul mare;
Ma testa e coda sol ne compra, il resto
Neppur permetti che in tua casa venga (25).

Cerca lo scaro d’Efeso; in inverno
Mangia la triglia presa in Tichiunte
Piena di sabbia, borgo di Mileto,
Vicino a’ Carj dalle gambe storte (26).

Comprala in Taso ancor, che per sapore
Non cede a quella, e se la trovi in Tio
Meno gustosa, non è tal che giunga
A potersi sprezzar. È saporita
La triglia poi, che là nel mar d’Eritro
Da quella spiaggia non lontan si pesca.
Di fresca e grossa aulopìa la testa
Cerca comprare in mezzo della state,
Allor che Febo sull’estremo cerchio
Guida il suo carro; e presto presto, e calda
La reca a mensa insiem con una salsa
Di triti aromi: convien poi che tutti
Collo schidon gli addomini ne arrosti (27).

Sempre la salpa ho per malvagio pesce,
Al più nel tempo in cui si miete il grano
Si può mangiar: ma sia di Mitilene (28).
Quando Orione in ciel sta ver l’occaso,
E del racemo produttor del vino
La madre getta la sua chioma in terra,
T’abbi allora alla mensa un sargo arrosto
Grande quanto si può, sparso di cacio,
Caldo, ammollito dal vigor d’aceto,
Perchè sua carne di natura è tosta.
Di condirmi così ti figgi in mente
Qualunque pesce, la cui carne è dura;
Ma quel che ha carne dilicata e pingue
Basta soltanto che di fino sale
L’aspergi, e l’ungi d’olio, perchè tutta
Tiene in sè la virtù di bel sapore (29).
L’amia in autunno, quando son calate
Ver l’occaso le Plejadi apparecchia
Come ti piace: e perchè dir più oltre?
Quella guastare, se ne avrai pur voglia,
Tu non potrai. Ma se desir ti spinge,
O caro Mosco, di sapere il modo
Con cui vien più gustosa, io pur dirollo.
Nelle foglie di fico la prepara
Con rigamo non molto, senza cacio,
Senz’altro untume; quando l’hai sì concia.
Semplicemente, in mezzo a quelle foglie
L’avvolgi, e sopra legala con giunco.
Mettila poscia sotto il cener caldo,
E colla mente va cogliendo il tempo
Che sia bene arrostita, e statti all’erta
Di non farla bruciar: ma t’abbi quella
Dell’amena Bisanzio se eccellente
Aver la vuoi; buona la trovi ancora
Se a Bizanzio vicino ella è pescata;
Ma se ti scosti più di gusto manca;
E se del mare Egeo passi lo stretto,
Tanto di quella nel sapor diversa
Ritrovando s’andrà, che scorno reca
Alle lodi da me fattele in pria (30).

L’asia disprezza, che non è d’Atene,
O sia di quella razza che da’ Joni
Spuma s’appella. Sì questa tu prendi
Fresca e pescata ne’ profondi e curvi
Sen di Falero, o se ti piace, in Rodi
Circondata di mar, dove gentile
Trovasi ancor quando là proprio nasce.
Ma se vago tu sei di ben gustarla,
Comprar bisogna le marine ortiche
Tutte intorno comate, e poi che insieme
Mescolate tra lor le avrai, le friggi
In padella nell’olio, in cui tritati
Vi sien d’erbucce gli odorosi fiori (31).

Compra in Eno ed in Ponto il pesce porco,
Che alcuni chiaman cavator di sabbia,
Lessane il capo senza condimento,
Ma dentro l’acqua lo rivolta spesso.
Indi v’aggiungi ben tritato issopo,
E, s’altro vi desii, sopra vi spargi
Aceto forte. Poscia intigni, e ’l mangia
Con tal fretta inghiottendo, che ti paja
Di soffocarti. Il dorso e la più parte
Di tal pesce convien di farli arrosto (32).

Prendi in Mileto dal Gesone il cefalo,
E il pesce lupo dagli dei allevato,
Perchè quel luogo per natura porta
Questi eccellenti. Altri, ver è, più grassi
Ve n’han, che nutre la palude Bolbe,
Ambracia ricca, e Calidon famosa;
Ma a questi pare che nel ventre manchi
Quel tale grasso, che soave olezza,
E quel sapore, che soave punge.
Son quelli, amico, di stupendo gusto.
Gli stessi interi, con tutte le squame,
Arrosti acconciamente a lento fuoco,
E poi con acqua e sale a mensa reca.
Ma non ti assista mentre gli apparecchi
Di Siracusa o dell’Italia alcuno,
Giacchè costoro preparar non sanno
I buoni pesci, e guastan le vivande
Ogni cosa di cacio essi imbrattando,
E di liquido aceto, e di salato Silfio spargendo.

I pesciolin di scoglio, Questi che son del tutto da esecrarsi,
Sanno essi preparar meglio che gli altri:
E son valenti nel formar con arte
Più e più sorti di manicaretti
Pieni tutti d’inezie e di leccumi (33).
Il citaro, se carne ha bianca e soda,
Voglio che bolli in semplice acqua e sale,
In cui solo sien poste alcune erbucce
Se non è molto grosso, ed alla vista
Par che rosseggi, voglio che l’arrosti,
Ma pungere ne dei da prima il corpo
Con un dritto coltel di fresco aguzzo;
E tutto d’olio e d’abbondante cacio
Ungerlo poi. Gli spenditor vedendo,
Gode tal pesce, che di spesa è ghiotto (34).
In Torone convien del can carcaria
Comprare i voti addomini, che stansi
Di sotto al ventre: questi poi gli arrosti
Di poco sale e di cimino aspersi,
E d’olio glauco in fuori, o dolce amico,
Altro non giungi: quando già son cotti,
Reca una salsa di tritati aromi,
E quei con questa.  Che se qualche parte
D’un cavo tegamin dentro l’interno
Cuocer ti piace, non mischiarvi insieme
Acqua nè aceto, ma vi spargi solo
Olio abbastanza con cimino asciutto,
Ed erbette spiranti odor soave.
Poi senza fiamma, e sul carbon li cuoci,
E spesso li rivolta, affin che intanto
Senza che te ne accorgi non si brucino.
Ma tra i mortali non son molti quelli,
A cui noto è tal cibo, ch’è da numi.
Anzi coloro, a cui toccò d’insetto
D’erbe sol roditor la stupid’alma,
Lo ricusan per cibo, e n’han ribrezzo,
Come di fiera, che d’uom carne mangia,
Ma tutto il pesce gran diletto piglia
Carne umana a mangiar dove l’incontra.
Però costor che van così da stolti
Ciarlando, uop’è che solamente all’erbe
Si riducano, e al sofo Diodoro
Correndo temperanti insiem con lui,
Seguan pitagorèa scuola e costume (35).

Esser vuol la torpedine bollita
In olio e vino con erbe odorose,
E un pocolin di grattugiato cacio (36).

In Calcedonia, che al mar presso siede,
Il grosso scaro ben lavato arrosti.
Buono è quel di Bisanzio, ed ha suo dorso
A tondo scudo di grandezza eguale.
Tu questo inter com’è così prepara:
Piglialo, e come l’hai d’olio e di cacio
Tutto coperto, appendilo al fornello
Già fatto caldo, e poi ben ben l’arrosti.
Ma spargilo di sal, cimino trito,
Ed olio glauco, dalla man versando
Fluido sì squisito a goccia a goccia (37).

D’Efeso non lasciar la pingue orata,
Che quegli abitator chiaman jonisco,
Ma scegli quella che nutrisce e alleva
La veneranda Selinunte, e questa
Lava prima ben bene, e poscia intera
Arrosti, e reca a mensa, ancor se grande
In sino a dieci cubiti ella fosse (38).
Di pingue, denso e grosso congro il capo
E tutti gl’intestini aver tu puoi
Nella cara Sicion, ma quello e questi
Tutti sparsi d’erbucce verdeggianti
A lungo bolli dentro l’acqua e ’l sale (39).

Nell’Italia si pesca esimio il congro,
E tanto gli altri pesci nel sapore
Vien tutti a superar, quanto il più grasso
De’ tonni avanza il coracin più vile (40).

Con cacio e silfio in mezzo dell’inverno
Mangia a lesso la razza: i pesci tutti
Figli del mar che mancano di grasso
Voglion tale apparecchio; io già tel dissi,
Ed or tel dico la seconda volta (41).

Pesce è malvagio il mormile di spiaggia,
In alcun tempo non si trova buono (42).
Mileto illustre saporiti nutre
I pesci ad aspra pelle; ma tra questi
Più lo squadro si pregi, o quella razza,
Che largo porta e liscio il dorso.
Intanto Ghiotto sarei del lucerton di mare
Ben dal forno arrostito, il quale forma
De’ figliuoli de’ Joni la delizia (43).
Del glauco voglio che mi compri il capo
In Olinto e Megara, che gustoso
Pigliasi in luoghi pien di guadi e d’alga (44).

Il passer prosso poi, l’aspretta sogliola,
E questa nella state, aver si denno
Là ’ve degna d’onor Calcide siede (45).

Alla sacra d’intorno ed ampia Samo
Molto grosso vedrai pescarsi il tonno,
Ch’orcino alcuni, ed altri chiaman ceto.
Convien di questo a te comprar se a’ numi
Cena imbandissi, e’ ti convien comprarlo
Senza tardar, senza far lite al prezzo.

In Caristo e Bisanzio è poi gustoso;
Molto miglior di questo è quel che nutre
Nell’isola famosa de’ Sicani
Di Tindari la spiaggia, e Cefaledi.

Ma se d’Italia sopra il santo suolo
In Ipponio verrai dove corona.
Hanno i Bruzii di mar, colà vedrai
I tonni più eccellenti, che la palma
Portan, vincendo di gran lunga gli altri.
Ma tra’ Bruzii e tra noi di là vagante
Pelaghi molti traghettando in mezzo
Al mar fremente questo pesce arriva.
Però da noi fuor di stagion si pesca (46).
T’abbi la polpa, che di coda è nodo,
Di quel pesce ch’è femina di tanno,
Il quale è grande, e per sua patria vanta
Il bizantino mar; tu quella in pezzi
Tagliata arrosti ben, di fino sale
Spargendola soltanto, e d’olio ungendo.
Poscia i pezzi ne mangia e caldi e intrisi
In forte salsa, e se ti vien la voglia
Asciutti di mangiarli, ancor gustosi
Questi ritrovi: per sapor, per vista
Degl’immortali numi in ver son degni;
Ma perdon tosto il pregio lor se aceto
Spargendovi li rechi alla tua mensa (47).
Il salume del Bosforo è degli altri
Bianco assai più, ma della dura carne
Nulla ci rechi di quel pesce, il quale
Nella palude di Meote ingrossa,
E in questo metro nominar non lice (48).
In Bizanzio arrivando, un pezzo piglia
Di pesce spada, e sia di quella polpa,
Che della coda la giuntura veste.
Saporito tal pesce ancor si pesca
Dello stretto nel fin verso Peloro (49).

Di tonno di Sicilia un pezzo mangia,
Di quel che a fette conservar salato
Nell’anfore si suol; ma la saperda
Che di Ponto è vivanda, e que’ che lode
Ne fanno, io voglio che compiangi a lungo:
Pochi san tra’ mortali esser quel cibo
Vile e meschin. Ma a te convien senz’altro
D’aver lo sgombro per metà salato,
Quasi ancor fresco, posto da tre giorni
Dentro d’un vaso, e prima che si stempri
In acqua salsa. Se di poi tu giungi
Nella santa città della famosa Bisanzio, allora del salume oréo
Un pezzetto per me mangia di nuovo
Che veramente è saporito e molle (50).
Son molti i modi e molti li precetti
Di preparare il lepre, ma eccellente
È quel d’apporne in mezzo a’ commensali,
Cui punge l’appetito, per ciascuno
La carne arrosto sparsa sol di sale,
Calda, dallo schidon crudetta alquanto
Strappata a forza; nè t’incresca il sangue
Che ne vedi stillare, anzi la mangia
Avidamente. Inopportuni e troppi
Son del tutto per me gli altri apparecchi
Di molto cacio, di molto olio e untume,
Come se a gatti s’imbandisse mensa (51).

Insiem prepara un grasso paperino
E questo ancor vo’ che soltanto arrosti (52).

Grinze e all’alber mature abbi le olive (53).

A cena sempre di ghirlande il capo
D’erbe cingi e di fior, di cui s’adorna
Il ricco suolo della terra, ed ungi
La tua chioma di fin liquidi unguenti;
Su lento fuoco di continuo spargi
Mirra ed incenso, che d’odor soave
Siria produce. Ma finito il pasto
Quando cominci a ber ti rechin questi,
Ch’io ti dico, piattel, ti rechin cotti
Ventre o vulva di scrofa, che conditi
Sien di silfio cimino e forte aceto,
E teneri augellini arrosto fatti
Quelli che porta la stagion dell’anno.
Nè questi abitator di Siracusa
Tu cura, i quali, come fan le rane,
Senza nulla mangiar bevono solo;
Non seguir l’uso loro, i cibi mangia,
Che t’indicai: tutti quegli altri, e mela
E fave e ceci cotti e fichi secchi
Per sè di turpe povertà son mostra.
Ma pregia il confortin fatto in Atene;
Che se questo ti manca, e d’altro luogo
Vieni forse ad averlo, almen ti parti,
Cerca l’attico miele, è questo appunto
Che fa di Atene il confortin superbo.
Convien così che liber’uom si viva
O pur sen vada giù sotto la terra
Sotto l’abisso il tartaro a rovina,
E per i stadii che non hanno numero
Lontan sotterra se ne stia sepolto (54).

Quando l’ultimo nappo a Giove sacro
Liberator colmo ti rechi in mano,
Il vecchio vin bevrai, che il capo innalza
Molto canuto, e tutta gli ricopre
Candido fior l’umida chioma, vino
Che la cinta di mar Lesbo produsse.
Anche il vin lodo, che si nasce in Biblo,
Città vetusta di Fenicia santa,
Ma a quel di Lesbo pareggiar nol posso.
E ver che, a bere del biblin, se pria
Uso non sei, nel punto che lo gusti
Più del lesbio parratti odor spirante,
Soave odor, che da vecchiezza prende:
Ma bevendolo poi vedrai che molto
Quello di Lesbo il vin di Biblo vince,
Parendoti destar non già di vino
Ma d’ambrosia il sapor l’odore e il gusto:
Che se qualche ciarlon tronfio cavilla,
Cianciando del fenicio, come fosse
Di tutti il più soave, io non lo curo.
Il Tasio ancora è generoso a bersi
Quando conta dell’altro età più lunga
Per molte belle primavere.
Al pari D’altre citta di ricordar le viti
Uve stillanti ed inalzar saprei
Anche con lode, che i lor nomi ignoti
A me non son. Ma, a schietto dir, non puossi
Altro vin comparare a quel di Lesbo.
Sonvi di quelli poi ch’hanno vaghezza
Lodar le cose delle lor contrade (55).

1) Il primo verso è quello stesso con cui Archestrato dà principio al suo poema giusta la testimonianza di Ateneo lib. I, cap. 4 pag. 5. Il secondo è stato supplito dal Casaubono, il quale ridusse in metro alcune parole, che riferisce Ateneo lib. 7, cap. 8, pag. 278, come ricavate dal principio del poema di Archestrato. Però è giusto che si sappia il primo verso essere d’Archestrato il secondo di Casaubono, ma composto probabilmente cole parole dello stesso Archestrato.
2) Il secondo frammento è rapportato da Ateneo lib. 1, cap. 4, p. 5.
3) Questi versi leggonsi presso Ateneo, lib. 3, cap. 28, pag. 112. Lungo sarebbe il riferire tutte le varie maniere di pane, ch’erano in uso presso i Greci. Si distinguevano non solo per la materia di cui eran fatti, ma ancora pel modo come eran cotta o nel forno, o nelle teglie, o sulle brage o nella cenere calda. Vi aveano focacce, che preparavano con olio e untumi o col miele, ed anche pani molli, in cui mettevano un poco il latte, di olio, o di altro grasso, o pure uno spruzzo di vino, e del pepe e del latte; nè mancavano de’ biscotti. Giungevano i Greci a cangiare più sorti di pane ne’ diversi serviti, affinchè meglio si eccitasse l’appetito. Archestrato cita solamente in questo frammento il pane d’orzo, quello d’orzo e di farro, l’altro di fior di farina, e fa menzione del pane agoreo degli Ateniesi, detto così perchè si vendea nella piazza, il quale era eccellente a’ suoi tempi; e in fine di un pane che non era cotto nel forno comune, ma in quello che noi si chiama forno di campagna. Pane sì bianco che l’eterea neve Vince in candor. Che se i celesti numi D’orzo mangiano il pan, ec… È simile questo detto d’Archestrato, come nota Casaubono, a quello di Varrone musas plautino sermone loquuturas fuisse si latino sermone loqui vellent. L’espressione Ἄβραις Δαλλων ὥραις, che alla lettera vuol dire fiorendo pe molli bellezze, è presa nel greco dalle frutta quando sono nella propria stagione, ed è stata applicata agli uomini per dinotare la bellezza, e la venustà di quei che sono nel fior dell’età. Ora questa maniera greca è stata da Archestrato applicata al pane, e vuol dire fresco e molle con que’ belli colori, che indicano di essere opportunamente cotto e lavorato.
4) Questi quattro versi sono rapportati nel medesimo luogo da Ateneo.
5) Presso Ateneo lib. 3, cap. 13, pag. 92. Si trova questo frammento di Archestrato quasi recato in latino da Ennio: Mures sunt Aeni, ast aspera ostrea Abydi, Est Mytilene pecten, aperque apud Ambraciae amnem, Brundusii sargus bonus est, ec. Nel primo verso greco μύς μῦς in verità dinota i muscoli o i mitili, ma questi vengono sotto il genere di Mie. Nel verso 6 del testo non è possibile di rendere fedelmente lo scherzo, che fa Archestrato colla parola χήρυκας, che nel greco linguaggio significa le trombe di mare e insieme i banditori; per conservare in qualche modo lo scherzo abbiamo usato trombettieri invece di banditori. 6) Aten. lib. 3, cap. 23, pag. 105. L’astaco, secondo Camus, è il granchio marino, ma l’astaco di Archestrato, secondo che vuole Ateneo, corrisponde al carabo de’ Greci, o sia alla locusta. E in verità, Archestrato non parlo del carabo in generale, ma di quello in particolare, che ha le mani lunghe e pesanti, i piedi piccoli, e che può saltare; e però non si può intendere de’ granchi. Si trova in Ateneo un passo di Epicarmo nelle nozze di Ebe, in cui si dice, che l’astaco a lunghe mani e a piedi piccoli si chiamava volgarmente carabo.
7) Aten. lib. 7, cap. 21, pag. 234.
8) Aten. lib. 7, cap. 22, pag. 326.
9) Aten. lib. 7, cap. 19, pag. 318.
10) Aten. lib. 7, cap. 15, pag. 304. L’ippuro si chiamava dagli antichi anche col nome di corifena, o con quello di saltatore; ma come non ne è venuta sino a noi alcuna ben particolarizzata descrizione, così non sappiamo a qual pesce venga a corrispondere. Rondelet solamente si lusinga, che fosse stato il Lampugo degli Spagnuoli. Linneo ha formato il Coryphena Hippurus, che corrisponde in Sicilia al pesce Capuni, ma non si può sapere se sia l’antico ippuro di Caristo, golfo sulla costa occidentale dell’Eubea, che ha sopra 42.° di longit. e 38.° di lat.
11) Aten. lib. 7, cap. 17, pag. 312. Il nome di pesce lato non si ritrova in Aristotile, e però Casaubono crede che sia stato allora nome d’Italia, o pure d’Egitto. Ateneo dice che è bianchissimo e soavissimo, e che quello del Nilo giunge talvolta a pesare dugento libbre. Altro non possiamo affermare, seguendo Ateneo, se non che il lato è simile al glane dell’Istro, che secondo alcuni è una specie di siluro. In sostanza è uno dei pesci, di cui non venne a noi la descrizione esatta.
12) Aten. lib. 3, cap. 23, pag. 106. La caride de’ Greci corrisponde alla squilla dei Latini, sorta di granchiolino di mare assai gustoso, e in particolare al cancer squilla di Linneo.
13) Aten. lib. 7, cap. 14, pag. 328. I caratteri del Cromi convengono a più pesci, e perciò non si sa in particolare a quale corrisponda. Rondelet crede che sia il castagno de’ Genovesi, e Belon un pesce che descrive, e chiama castagnuola, e Du Hamel un pesce che descrive, e chiama castagno. Il certo egli è che il Cromi appartiene alla classe numerosa di quei pesci, che somigliano al dentice, all’orata, ec. ma del quale non si conosce il nome.
14) Aten. lib. 7, cap. 18, pag. 316. L’asino fu preso per il merluzzo o baccalà degli Italiani, che corrisponde all’asellus de’ Latini. Secondo Plinio l’asino callaria era un genere più piccolo dell’altro che si chiamava bacco, e si pescava in alto mare: e però il pesce asino callaria, indicato da Archestrato, non può appartenere al bacco, ma all’asello minore di Plinio. E in verità Dorione nel suo trattato de’ pesci distingue, giusta la testimonianza d’Ateneo, il pesce asino ὄνος dell’asello ὀνίσκος. Camus è così imbarazzato nel definire il pesce asino d’Aristotile, che crede doversi raffigurare in qualche specie che i moderni comprendono sotto il nome di asino. Reca quindi la congettura di Belon, il quale riferisce, che nell’isola di Creta vi ha un pesce chiamato γαιδαρόψαρον, che nel greco moderno linguaggio di quegli abitanti suona pesce asino; e questo i Greci moderni lo chiamano anche ὀνίσκος, che vale il merlan de’ francesi, o sia asello. In Palermo vi ha un pesce chiamato asinello, che è comunissimo, ed ha una carne molle, e porta varii nomi come va crescendo, ed appartiene agli spari: la sua maggior lunghezza è d’otto pollici, e rassomiglia allo sparus boops di Linneo, detto
15) Aten. lib. 7, cap. 15, pag. 305. Il pesce cinghiale κάσπρος de’ Greci, sappiamo essere ad aspra pelle, e che era, al dir d’Aristotele, nel fiume Acheloo, che separa l’Acarnania dall’Etolia; ma ignoriamo a quale pesce possa oggi corrispondere. Il carattere che ne dà Aristotele, è quello che grugnisce, ma questa è una qualità comune a molti pesci. Si ricava solamente da Archestrato, ch’era assai rado e molto gustoso, e che si trovava in Ambracia. Dal verso 5, del testo sino al fine di questo frammento non pare che si possa trarre un senso chiaro; gl’interpreti si dividono in varie opinioni. Noi abbiamo seguito quella di Casaubono, la quale sta soggetta a meno difficoltà, pensando egli, che si dice poter avere un tal pesce solamente i ricchi, i quali sono rappresentati ne’ banchieri, e li dipinge pel costume, che aveano, di tenere i denari nei cestelli di giunco da’ Latini poi detti fisci. Non possiamo poi convenire con Casaubono e cogli altri, che vogliono riunire l’ultimo verso ai precedenti. Questo dovea senza dubbio essere principio di nuovo discorso. E così da noi si è interpretrato.
16) Aten. lib. 7, cap. 20, pag. 321.
17) Aten. lib. 7, cap. 18, pag. 313. La parola σπλωτή, che vuol dire fluitans ad aquae superficiem, o pure ondeggiante era riserbata in Sicilia per la murena, la quale anche allora vi era assai celebre. Marziale, lib. 13: Quae natat in siculo grandis muraena profundo e Giovenale, sat. 5: Vironi muraena datur, quae maxima venit Gurgite de siculo.
18) Aten. lib. 7, cap. 13, pag. 299. Nell’ultimo verso l’edizione di Due Ponti seguendo Coray legge ἀπήρινος, privo di parti genitali, ma tutti i codici leggono ἀπύρινος, che vuol dire tutto polpa senza nocciolo. E poichè l’anguilla non ha altre spine fuor che quella del dorso, però abbiamo seguito la comune lezione.
19) Aten. lib. 7, cap. 20, pag. 322. Il sinodonte si convien da tutti, che corrisponde al dentice.
20) Aten. lib. 7, cap. 14, pag. 301. Pare che la Lebia fosse stato il nome antico, e poi si fosse a questo pesce dato il nome di Epato, giacchè Aristotile non fa mai menzione della Lebia, e cita soltanto l’Epato. La descrizione di questo pesce non si trova ne’ libri, che ci restan di lui, e solamente sappiamo da Ateneo, che era un pesce da scoglio simile al fagro, che vivea solitario, carnivoro, co’ denti a sega, e di color nericcio. Rondelet descrive un pesce, nel quale riunite ha trovato tutte le qualità indicate da Ateneo, ma non sa assegnargli nome alcuno volgare. [
21) Aten. lib. 7, cap. 16, pag. 307. È qui da notare, che il muggine secondo la testimonianza di Filemone, che parla de’ fiumi di Sicilia, si chiamava ancora πλώτες.
22) Aten. lib. 7, cap. 5, pag. 286 e cap. 12, pag. 295. Questo pesce corrisponde allo squalus vulpecula di Linneo. Era chiamato cane da’ Siracusani ed è in verità una specie de’ cani marini. Secondo Rondelet in Linguadoca si chiama peis paso, e si rassomiglia in qualche modo a quel pesce, che da’ marinai in Sicilia si chiama pesce sorcio. Ateneo crede che questo pesce di Archestrato corrisponda allo acipensor de’ Romani, che al dire di alcuni è lo storione.
23) Aten. lib. 7, cap. 12, pag. 310. Molta è l’incertezza de’ naturalisti sull’elope. Alcuni credono che non il galeo volpe d’Archestrato, ma questo pesce sia l’acipenser, cioè il nostro storione; ma Plinio crede di no, appoggiato a quel verso d’Ovidio. Et pretiosus Helops nostris incognitus undis; giacchè lo storione non è incognito ne’ mari d’Italia e particolarmente di Sicilia. Forse vi ebbe chi chiamò l’acipenser de’ Romani col nome di Elope; ma il certo è che l’Elope d’Archestrato non è quello d’Ovidio, perchè quegli vuole che nasca in Siracusa e che vi sia abbondante; e di non esser lo stesso si rileva pure da quel verso d’Ovidio: Tuque pereginis acipenser nobilis undis; mentre Ovidio non avrebbe chiamato peregrine le onde della Sicilia. Ciò non ostante potendosi accordare alcuni caratteri dello storione coll’elope d’Aristotele forse l’elope corrisponde allo storione, molto più che nel porto di Siracusa non sono radi gli storioni, ed Archestrato ivi vuol nato l’Elope.
24) Lib. 7, cap. 9, pag. 286.
25) Aten. lib. 7, cap. 22, pag. 327. Il fagro è del genere degli spari, ed è descritto sotto il nome di pagrus, o pagre da Willoughbi, e da Duhamel.
26) Questi due frammenti, che si rapportano separati da Ateneo. (Il primo lib. 7, capitolo 20, pag. 320 e il secondo lib. 7, cap. 21, pag. 325) si possono riunire benissimo come si è fatto. Non si comprende perchè il nostro poeta faccia a’ Cari l’ingiuria di chiamarli colle gambe storte: ma le parole non si possono volgere altrimenti. Tra le interpretazioni, che non si possono ammettere vi è quella robusti di membra.
27) Aten. lib. 7, cap. 22, pag. 326. La mancanza di esatte descrizioni, e la varietà dei nomi, che sortiva il medesimo pesce in diverse contrade, ci rende ad ogni passo dubbiosi nel definire a quali oggi si corrispondono i pesci ricordati da Archestrato. L’Aulopia era chiamata Anthias, Challicthin, Callionyma, e sin anco Ellope. Ma i nomi più comuni erano quelli di aulopia, anthia e pesce sagro. Dorione poi e tanti altri aveano tutti questi nomi come quelli che indicavano non un solo pesce, ma tanti pesci diversi. Ciò non ostante Rondelet ha descritto questa specie d’anthia giusta alcuni caratteri indicati da Oppiano che, secondo pare, non descrive l’anthia d’Aristotele, ed è affatto diversa da quella che ricorda Eliano. Siamo quindi del tutto incerti sull’aulopia d’Archestrato.
28) Aten. lib. 7, cap. 20, pag. 322.
29) Aten. lib. 7, cap. 20, pag. 321. Si è confuso il sargo col sargino, ma pare che siano due pesci differenti. Il sargino, secondo Rondelet è del genere de’ muggini, e al dire di Camus di quella specie, che i Francesi chiamano mugevolant o falcone di mare, e crede così spiegare quel verso d’Ovidio. …. sargusque notis insignis et alis. Il sargo poi è comune opinione, dopo ciò che ne ha detto Rondelet, che appartenga al genere degli spari, in cui si comprendono da’ moderni l’orata, la salpa, il dentice, il cromi, il melanuro. Potrà quindi corrispondere allo sparus sargius di Linneo.
30) Aten. lib. 7, cap. 5, pag. 178. In questo frammento descrive il poeta il finir dell’autunno col tramontar delle pleIadi, come nel precedente alla descrizione della stagione medesima aveva accompagnato la circostanza del tramontar d’orione. Questo passo concorre con tanti altri passi di Virgilio, Ovidio, Columella, e Varrone Plinio ci mostra non solo essere stato costume degli antichi di descrivere col corso delle stelle le stagioni, e i diversi tempi della medesima stagione come fa in un altro frammento il nostro poeta, ove vuole che il sagro si mangi allo spuntar di sirio, ch’è all’ultimo della state; ma ci fa ancora rilevare, che i Greci si servivano al medesimo oggetto eziandio del tramontar mattutino degli astri, sebbene non fosse visibile al nascere, che succede verso le 8 della sera, e non al tramontare, che ha luogo verso le 8 della mattina, e il tramontare di queste stelle prima di mezza notte non è per noi visibile che in marzo ed aprile. Plin., lib. 18, c. 25: Inter solstitium et aequinoctium autumni fidiculae occasus autumnum inchoat die XLVI, ab aecquinoctio eo ad brumam Vergiliurum matutinus occasus hyemem die XLIV. Archestrato adunque segna il principio dell’inverno col tramontare mattutino delle plejadi, e d’orione. E però il coco famoso presso Damosseno il comico (Aten. lib. 3, cap. 23, pag. 102) seguendo il nostro poeta dice apertamente, che un buon cuciniere deve sapere quali cibi sien gustosi nel tramontar delle plejadi, o nelle altre mutazioni dell’anno. — L’amia degli antichi, a parere di Rondelet, è il boniton, o sia bonito de’ marinari, che è lo scomber pelamys dell’oceano. Ma questa pelamide non pare che sia la stessa di quella del Mediterraneo, la quale corrisponde alla pelamide di Beloo, o almeno è diversa da quella che si pesca in Palermo. Quel pesce che tra i Siciliani si dice palamita, è lungo un piede e mezzo in circa, ha la testa nera, il dorso al quanto fosco, e il ventre biancastro, ed è stimato più dello scomber alalunga; camminando a torme, si avvicina ai lidi di Sicilia collo scomber thymnus; però in gran copia si pesca nelle tonnare, ove anche si sala. Questa pelamide pare che si convenga ai caratteri, che Matron, il parodo, attribuisce all’amia nella cena attica presso Aten. lib. 4, cap. 5, pag. 135. Egli la chiama di color ceruleo, grande, e che conosce i profondi gorghi del mare. Ciò non ostante il modo con cui l’apparecchia Archestrato c’indica che non fosse un pesce così grosso quanto la pelamide del Mediterraneo, giacchè vuole che l’amia s’involgesse nelle foglie di fico, e si mettesse sotto la cenere calda. Si potrebbe credere che l’amia fosse stato lo scomber scombrus, in Siciliano scurmu, se e Aristotele ed Archestrato non distinguessero l’amia dallo sgombro parlandone l’uno e l’altro separatamente. Il certo è che per i caratteri riferiti da Aristotile l’amia è del genere de’ sgombri; ma per la maniera con cui Archestrato la vuole preparata, non può appartenere se non ad una specie di piccolo sgombro.
31) Aten. lib. 7, cap. 8, pag. 285. L’afia, secondo il valor della parola, vuol dire, che non è nata, ed ella ritiene presso di noi ancora lo stesso nome nunnata, e presso i Genovesi, come dice Rondelet, il nome di nonnadi. La migliore era quella chiamata spuma, secondo che dice Aristotele ed Archestrato. Ma Aristotele distingue quella d’Atene dall’altra di Falero, mentre, secondo Archestrato, sono della medesima qualità. Se ne distinguevano presso gli antichi tante altre specie, che si teneano per vili, come in Palermo si distingue la nunnata bianca dalla sfigghiata, che risulta da piccoli pesciolini di diversa specie, e che niente si pregia. Le ortiche di mare sono, come si sa, de’ molluschi; essendo chiusi, sono simili presso a poco alla testa d’un fungo senza picciuolo, e quando si espandono svolgono un gran numero di fili, che lor fa pigliare la figura di comate. Le ortiche marine libere degli antichi corrispondono alle lucernarie di Muller. Intorno all’afia si rapporta da Ateneo il precetto di Archestrato, che si deve ritrarre dalla padella ancora stridente.
32) Aten. lib. 7, cap. 22, pag. 326. Aristotele non fa alcuna menzione di questo pesce, almeno sotto il nome, che gli dà Archestrato. Alcuni credono che sia lo stesso che il κάσπρος, o cinghial di mare, ma Archestrato pare che lo distingua. Le parole ψαμμίτην ὀρυκτὴν, che dichiarate si sono cavator di sabbia, non pare che ben si accordino colla grammatica, e verrebbe meglio a spiegarsi dall’arena cavato, molto più che Ateneo fa menzione di alcuni pesci, che entrano coll’acqua sotto un terreno sabbioso, e poi cavando arena si traggono.
33) Aten. lib. 7, cap. 17, pag. 311. Il pesce lubrax de’ Greci corrisponde al lupus dei latini, ed a quello che si chiama lupo, che si trova ben disegnato da Villoughbi (de piscib. pag. 271). Nè pare che se ne possa dubitare, perchè tutti i caratteri dati da Aristotele al suo labrax corrispondono esattamente al lupo marino de’ nostri tempi. Presso i Romani questo pesce era anche in pregio, e più d’altro quello che si pescava nel Tevere tra i due ponti, come dice Plin. (Hist. lib. 9, cap. 17), giacchè il lupo risale i fiumi come fa il salmone. Il silfio era una pianta da cucina di cui faceano uso comunemente gli antichi, e che da’ Latini fu chiamato laserpitium (Plin. lib. 19, cap. 3). Molti botanici ricercarono nel 16. secolo a quale genere e specie riferir si dovesse questa pianta. Alcuni con Dodoneo (Pempt. 2, lib. 5, cap. 24, pag. 19), opinarono, che il silfio de’ Greci corrispondesse all’angelica (laserpitium archangelica, Wild. sp. pl. I, p. 1419); altri all’angelica sativa (angelica arcangelica, Linn. sp. pl. 360); ed altri in fine al laserpitium ponae, di cui Linneo fece il suo laserpitium gallicum (Dalechamp, Hist. p. 727). La quistione intanto rimase indecisa, e lo sarà per sempre, giacchè dalle brevi ed imperfette descrizioni degli antichi non ci è conceduto di conoscere se non a stento le piante da loro accennate.
34) Aten. lib. 7, cap. 10, pag. 306. Il citaro (Hist. lib. 32, cap. 11) è un pesce del genere de’ rombi: Rondelet poi raccogliendo tutti i caratteri indicati da Aristotele, è di opinione, che sia il pesce chiamato folio in Italia. Crede oltre a ciò dai due modi diversi con cui vuole Archestrato che fosse apparecchiato, che il citaro era di due specie differenti, ma gli altri naturalisti non credono ben fondata questa opinione di Rondelet.
35) Aten. lib. 7, cap. 17, pag. 310. Questo cane di mare dagli antichi fu ancora chiamato, giusta la testimonianza di Nicandro (lib. 7, cap. 16, pag. 306), lamia e scilla. È una specie di cane marino il più vorace, e se ne può leggere la descrizione nel dizionario degli animali alla voce Chien de mer. Diodoro Aspendio fu uno degli ultimi pitagorici, che mutò l’instituto di Pitagora in un impudente cinicismo. Portava egli rabbuffati i capelli, logore e stracciate le vesti, e affettava astinenza della più parte dei cibi. Però Archestrato a lui rimanda quelli che aveano a schifo il can carcaria, e li suppone alla maniera di Pitagora informati, per disprezzo, di quell’anima che prima era stata in qualche insetto che rode solo dell’erbe.
36) Aten. lib. 7, cap. 18, pag. 315.
37) Aten. lib. 7, cap. 20, pag. 320. Lo scaro, che era un pesce tanto in pregio presso i Romani, non si sa con precisione a che corrisponda tra noi. Belon dice che è il più dilicato tra i pesci di scoglio, e che in Creta si chiama oggi ancora col nome di scaro, però alcuni sono d’opinione, che lo scaro di Belon sia quello degli antichi.
38) Aten. lib 7, cap. 27, pag. 328. L’orata in Efeso, al dir di Suida, si chiamava ionos, ed Archestrato forse per cagion del metro lo chiamò ioniscos.
39) Aten. lib 6, cap. 11, pag. 294. Il comico Sotade apparecchia il congro alla maniera d’Archestrato, presso Aten. lib 7, cap. 11, pag. 293. Il coracino è il pesce corvo, ed è stato descritto da Rondelet (de’ pesci lib. 5, cap. 8).
41) Aten. lib 7, cap. 9, pag. 286. La batide è la razza femmina, e questa si preparava ancor d’una maniera particolare in Sicilia, giusta la testimonianza del comico Efippo nella commedia che porta il nome di Filira.
42) Aten. lib 7, cap. 1, pag. 314. Il mormiro suole essere piccolo, appartiene al genere delle orate, e si suol chiamare mormo e mormillo, è colorato a zone e però Ovid. Halieut. V. 110, dice: …. Et pictae mormyres, et auri. Chrysophrys imitata decus.
43) Aten. lib 7, cap. 20, pag. 319. Lo squadro è un pesce notissimo, e la razza qui è determinata dalla parola λειοβάτος, che vuol dire liscia in quanto non ha spine, come le altre razze, nel corpo, ma solamente alla coda; i Francesi lo chiamano Raye-lisse, e i Siciliani picara liscia. Si maraviglierà alcuno che il κροκοδείλον siasi da noi dichiarato per lucertolon di mare come altri sinora non ha fatto. Non pare che Archestrato possa parlare del gran coccodrillo d’Egitto, la cui carne, per testimonianza di Diodoro, non era buona a mangiarsi. Gl’interpreti si sono imbarazzati nella spiegazione di questo luogo d’Archestrato. Casaubono e i Bipontini dicono, che non lontano da Calcedonia vi era un lago ricordato da Strabone, che nutriva de’ piccoli coccodrilli, e che forse a’ tempi d’Archestrato ne nutriva del pari la palude di Gesone vicina a Mileto, e che forse di questi abbia inteso parlare il nostro poeta; ma questa è un’ipotesi puramente immaginaria, nè spiega comequesti pretesi piccoli coccodrilli così gratuitamente situati nel Gesone, poteano col loro gusto ed abbondanza formare la delizia de’ figliuoli de’ Toni. Cemus poi all’art. raye lo tira all’ironia: è egli d’opinione contro il senso del testo, che Archestrato (o, come per equivoco dice egli, Dorione) intende disprezzare in questo luogo lo squadro e la razza, e che vi abbia per palesar l’ironia aggiunto il coccodrillo, ch’era manifestamente cattivo a mangiarsi; ma questa interpretazione è tutta di sua fantasia perchè non è nulla sostenuta dal testo. Forse da quel che dice Erodoto de’ Toni, che chiamarono coccodrillo quello del Nilo perchè somigliava ad una specie di lucerta, che essi indicavano con questo nome, prende Villebrun argomento di spiegare il coccodrillo di Archestrato per un lézard des haies, lacertus sepium; ma primieramente non si sa che questa specie di lucertolone allora si mangiasse, e poi mentre l’autore parla de’ pesci non è verisimile che siasi rivolto a far parola d’un animale terrestre. La lucerta di terra, che i Greci chiamavano σαύρος, solea dagli Ioni chiamarsi κροκοδείλος, ed allorchè questi si portarono co’ Carii in Egitto chiamati in difesa da Psammitico, quello animale, che colà si diceva champso, essi, per testimonianza di Erodoto, lo chiamarono κροκοδείλος per la somiglianza nella figura, che videro avere colla lucerta terrestre (il quale nome rimase di poi destinato ad indicare, come oggi ancora si fa, il coccodrillo). Non altro dunque che questo si può cavare da Erodoto. Ora egli è certo, che i Greci per la somiglianza della lucertola di terra chiamavano anche σαῦρος un pesce, che si pescava ne’ loro mari; e siccome la lucerta di terra si dicea dagli Ioni κροκοδείλος, così con questo nome dovettero essi ancora chiamare il pesce σαῦρος degli altri Greci. Sono quindi d’opinione, che qui Archestrato intenda parlare di tal pesce lucerta di mare. E sebbene questo pesce sia stato indicato da Aristotile secondo il nome allora comune in Grecia, ch’era quello di σαῦρος, recato da’ Latini nella voce lacertus, pure Archestrato parlando particolarmente degli Ioni, pare che l’abbia voluto indicare colla loro maniera, poichè nello stesso modo, che Aristotile chiama σαύρος, e i Latini lacertus, la lucertola così di terra come di mare, gli Ioni, che giusta la testimonianza di Erodoto chiamavano κροκοδείλος la lucerta di terra, dovettero del pare chiamare κροκοδείλος la lucertola di mare. Sono quindi di avviso che Archestrato per chiamar questo pesce usò della voce de’ Toni, ai quali dice egli, che era assai gradito. Rondelet è incerto tra più pesci a quale oggi si debba riferire il σαῦρος de’ Greci o lacertus dei Latini; e Belon ne ha fatto un genere che racchiude più e più specie. Ma Camus avendo riguardo ai cenni che ne fa Aristotile, ed alla maniera con cui lo netta, taglia e prepara il coco del Comico Alessi presso Aten. l. 7, c. 20, p. 322, è di avvso, che il sauros sia lo scomber tracurus di Linneo, in siciliano sauru. Se così fosse, come verisimile, si verrebbe tra noi a conservare lo stesso nome a tal pesce, che avea presso i Greci.
44) Aten. lib. 7, cap. 12, pag. 295. S’ignora che pesce sia il Glauco degli antichi. Il P. Ardouin, (de’ pesci lib. 8, cap. 15, 17) dice Rondeletius raria glauci genera ac nomina describit, sed ex conjectura ingenii tantum haud satis tuta. Lupo omnino similis esse dicitur a Xenocrate apud Oribasium.
45) Aten. lib. 7, cap. 10, pag. 238, e cap. 24, pag. 330. Il passere ψῆττα de’ Greci corrisponde, come dice Ateneo, al rombo de’ Romani, nome che questi, al dir di Casaubono, presero da’ Siciliani che lo chiamavano rombos; oggi si nomina tra noi rammulu, o rammulu imperiali, ch’è il più grande; ma Rondelet e Gesnero sono d’opinione, che sia propriamente la pleuronectes platessa di Linn.; in Siciliano passaru, pesce del medesimo genere del rombo o sia pleuronectes rhombus di Linneo.
46) Aten. lib. 7, cap. 14, pag. 302.
47) Aten. lib. 7, cap. 15, pag. 303.
48) Aten. lib. 7, cap. 7, pag. 284.
49) Aten. lib. 7, cap. 18, pag. 315.
50) Aten. lib. 3, cap. 30, pag. 117. La saperda, secondo Esichio, era il nome che si assegnava al pesce coracino, o corvo, nelle coste del Ponto. Il salume oreo era formato da quella parte del tonno che sta vicino alla coda.
51) Aten. lib. 9, cap. 14, pag. 399.
52) Aten. lib. 9, cap. 8, pag. 384.
53) Aten. lib. 2, cap. 15, pag. 36. I Greci chiamavano δροπετεῖς le olive, che si maturano all’albero, e però i Romani le chiamavano druppae. I Greci poi chiamavano colymibadas le olive in salamoja, che molto pregiavano. Si vegga Aten. nel luogo cit.
54) Aten. lib. 3, cap. 22, pag. 101.
55) Aten. lib. 1, cap. 23, pag. 29. Si è aggiunta la parola vetusta a Biblo perchè in verità era questa una città antichissima di Fenicia, ma è da pigliare in considerazione, secondo Ateneo, che quando Archestrato parla nel vers. 13 del vino fenicio, non intende far parola del vino di Biblo, ma d’un vino che si facea nell’oriente da’ datteri, e si chiamava fenicio o sia palmeo da φοῖνιξ, palma (Plin. lib. 13 e 14). Questo vino da principio era essai dolce, ma subito si guastava. Non si può finalmente definire a qual vino si riferisca la parola ἑτέρου del vers. 16, perchè Ateneo rapporta il frammento con alcuni versi mancanti prima che si faccia menzione del vino tasio.

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